Le puttane non chiudono mai le gambe
dicono che han sempre voglia di prenderlo
al contrario i petali esterni del Tulipano,
al calar del sole, premono verso l’interno
attendendo pazientemente il sorgere di un nuovo giorno.
Questa è una poesia biologica
che narra l’esistenza della diversità
per la quale siamo spinti ad affrontare
bufere e tormente
fin quando non saremo accovacciati
all’interno di quella calda sacca
nutriente luogo che tiene fuori il tempo,
dentro te si consuma la vita.
Una vita che è continua ricerca
verso quella bellezza celata
a cui non siamo ancora pronti ad accostarci
e ci si accontenta di quella effimera vanità
che struggendo l’animo c’insegna
il senso della vita. Oh Ninfea
giunta qui tra ordinarea areosità
riesci dunque a godere del sole
per cui da fluide tenebre decidesti
di scalare litri di secoli?
Dimmi tu Ninfea, godi di questo sole
o i fiumi dei pensieri umani
anche a te impediscono di goderne?
Le puttane non chiudono mai le gambe
si aprono nella notte come purpurei Iris
e pazientemente attendono il sopraggiungere
del piacere
che succhierà via da quel corpo
giusto un pizzico di bellezza
e se ne andrà
lasciando quel fiore divino
vagare per campi flegrei
nell’attesa che la vita un giorno
possa nuovamente compiersi.
come stridono le mie mani
sulla lucida carrozzeria
e con quale fremito
spingi verso il fondo
a voler schiantare
contro il mio corpo nudo
il tuo umano telaio
a voler imprimere
su questa imperfetta pelle
i sogni di una notte meccanica;
com’è doloroso
veder accasciare
quella scocca perfetta
che languidamente bacio bagnato dall’abbagliante luce
di fanali quasi spenti.
premo e scalpito
inseguendo la potenza
bianca e amara
senza mai fermare
senza mai decelerare
inseguendo questa chimera
lontana
e quando oramai stanco
arretro
queste tue mani forti
stringono questo motore
la luce si palesa
ed’è uno schianto.
Non conservo immagine dell’attimo in cui
mutai da energia a materia e quindi pensiero
di quell’attimo lontano tanto quanto sembri
non essere mai accaduto
posso immaginare la potenza con cui
fui gettato da una realtà parallela
in questa vita terrena
quella fatta di giorni scadenze doveri
fatta di spazio e di tempo.
provo allora a immaginare l’emozione
che in me suscitò la vista del volto
il primo istante in cui ti guardai
dopo essere stati scissi in due entità.
lontano da te potevo finalmente guardarti
mamma.
e quello fu primo e vero amore
il momento in cui per la prima volta
tu mi hai guardato e nei tuoi occhi
ho cominciato a conoscere me stesso
a percepire questa nuova dimensione
ero diventato carne tra la tua carne.
ed’è per questo che adesso da te lontano
tra fumose distese di papaveri
io ti rammento fiera e nobile
cosparsa di melograni e carbonici tetraedri
distesa su di un mare di cadaveri
mentre reciti parole dolci
con le quali cullandomi
gettavi tra le mie labbra fiele
terra mia materna e matrigna.
Che mi costringi a fuggire così
da non sopperire alla calugine estiva
con la quale ti avvinghi e uccidi.
menomata terra pensierosa che ammali
moderna medusa che pietrifichi
il mio canto non può che giungerti da lontano
da fredde terre del nord che provano a curare
ustioni.
Pierangelo Grosso